La città, è da sempre, il luogo reale dove si
incontrano e scontrano realtà differenti: cittadini, imprese, istituzioni. Realtà
diverse e mutevoli accomunate da una sola grande esigenza: vivere e coabitare
in uno spazio accogliente e utile. Del resto la civiltà è nata nelle città. Il
termine stesso deriva dalla civilitas latina
e quindi dal civis, l’abitante delle
città. La polis greca, la urbs romana, il comune medievale, sono esempi reali di una evoluzione sistemica
degli spazi abitativi. Una realtà mutevole che nei secoli ha modificato
radicalmente i propri assetti. Pensare solo che si è passati da 791 milioni di persone
nel 1750 a circa 6 miliardi nel 2000 e il trend è in continua crescita (8
miliardi nel 2028 e 10 miliardi nel 2050), dei quali ormai oltre la metà vivono
in aree urbanizzate, rende chiara e evidente l’evoluzione in corso e il
relativo ruolo delle città. Una realtà mutevole, quindi, che impone una
profonda riflessione e uno sguardo attento e critico. Il mio punto di vista è
quello di un progettista che da 35 anni lavora quotidianamente per la
realizzazione di politiche per lo sviluppo, ma che allo stesso tempo vive nel
tessuto cittadino, politico e sociale. Per questo vivo una profonda dicotomia
data dall’ottimismo della ragione e dal pessimismo della realtà.
La ragione mi impone di guardare il futuro con
ottimismo, credendo in un miglioramento delle città e del tessuto socio -
economico, che passa attraverso la sempre maggiore interconnessione delle aree
urbane, dove centri cittadini, periferie e territori diventino poli di uno
stesso sistema: le foreste urbane. L’impulso dato dalle nuove tecnologie
aumenta questo ottimismo. Abbiamo alla nostra portata strumenti che facilitano
lo scambio di idee, di progetti, di lavori, che ci aiutano a raggiungere un
traguardo di una piena condivisione tra cittadini, co-working tra imprese e
corresponsabilità tra le istituzioni. Lo stimolo positivo di Europa 2020, da
cogliere, impone agli Stati europei la realizzazione di una crescita
intelligente, ovvero basare lo sviluppo economico sulla conoscenza e
sull’innovazione, di una crescita sostenibile, mediante un’economia più efficiente,
più verde, più competitiva e di una crescita inclusiva, ovvero promuovere
un’economica che favorisca l’occupazione e la coesione territoriale.
Ma il sano ottimismo della ragione si scontra con i
dati che la realtà, crudelmente, ci mostra. Abbiamo un tessuto imprenditoriale in Italia, dato
soprattutto da piccole e medie imprese, che colpiti dalla crisi economica
globale, hanno perso la capacità di progettare il futuro. Vivono con il solo
obiettivo di sopravvivere nel breve, anzi brevissimo periodo. Abbiamo un sistema produttivo che ha smesso di cooperare e
collaborare. Che ha dimenticato – come ricorda Luigino Bruni
di essere figlio di quegli artigiani-artisti che hanno portato nel mondo il
Made in Italy e reso grandi i nostri distretti. Un sistema che mira solo a
difendere le rendite, ovvero posizioni di potere acquisite, come lo stesso
governatore della Banca d’Italia ha ricordato lo scorso 31 maggio. Abbiamo dimenticato il senso del bene
comune, il senso della tutela di ciò di cui abbiamo, i motivi per cui vale la
pena difendere il nostro territorio. Abbiamo realtà cittadine che sono poco vicine alle esigenze
di chi vi abita. Città con poca mobilità, con tante periferie scollegate e
abbandonate, con il problema dello smaltimento dei rifiuti, con una
disgregazione sociale che logora dalle fondamenta il senso vero della civitas. Realtà dove le imprese,
malgrado ne siano la funzione fondante, sono troppo spesso un sistema a se
stante, estraneo nelle politiche, nella programmazione, nella gestione, alla
vita urbana.
Per uscire da questo vortice regressivo e da questo
“accantonamento” bisognerebbe rompere alcuni tabù, che con il tempo si sono creati
e provare a trovare nuove strade per un progresso sostenibile. I tabù sono
quelli del digitale, della rete, dell’identità e della qualità, della
sostenibilità, della semplificazione e della cultura e innovazione. Sette tabù
da trasformare in sette virtù capitali .
Ma bisognerebbe, altresì, non cadere nella
tecnocrazia nuda e cruda. Non dovremmo lasciarci sopraffare dall’idea che le
nuove tecnologie siano la soluzione di tutti i mali. L’innovazione digitale
dovrebbe essere contemporaneamente infrastrutturale e culturale, dove la prima
non ha senso senza la seconda e viceversa. I dati, su questo, ancora una volta
sono poco confortanti. Nel 2013 in Italia il 90% delle imprese ha un pc e la
connessione a internet, ma solo l’11% utilizza sistemi di e-government, appena
il 3,2% usa internet per l’ecommerce, il 5% attua la promozione dei propri
prodotti via social network.
Non sono solo le imprese a non cogliere la sfida dell’innovazione digitale ma
anche le Pubblica Amministrazione. Retecamere ha condotto un’indagine tra
aprile e maggio 2013, dove è stato riscontrato che dei 240 enti pubblici che
hanno fornito una risposta, rispetto ai 308 contattati, solo il 47% dispone di
impianto di connessione wifi nella propria sede e solo il 34% ne consente
l’utilizzo agli ospiti. Nella classifica sulle 132 città innovative al mondo vi
sono solo tre città italiane: Milano, Roma e Torino. Tanto per fare una breve
comparazione con i nostri “competitors” europei
la Francia nel vanta 11 e la Germania 18 .
Dati, quindi, che mostrano come
nonostante il digitale contribuisca a cambiare il modo di fare politica e il
modo di comunicare tra PA e imprese e tra imprese e PA, siamo ancora ad un
lento approccio tecnologico, (ovvero il dotarsi di…), senza l’approccio
sistemico che il digitale offre. La domanda che non ci si può non porre è
quindi: cosa i principali attori delle città, cittadini, imprese e istituzioni,
dovrebbero fare per avviare il cambiamento? Bisognerebbe iniziare,
innanzitutto, ad avere approcci e sviluppare metodologie sistemiche e non
settorializzate. Le politiche pubbliche non possono prescindere dai progetti
condivisi e cogenerati dalle diverse istanze sul territorio. Le pubbliche
amministrazioni territoriali: Camere di Commercio, Comuni, Provincie e Regioni
non dovrebbero correre il rischio di creare azioni senza il partenariato di
imprese, cittadini e organizzazioni del terzo settore, oltre che condividendo i
rispettivi programmi. Bisognerebbe rieducarsi alla programmazione. L’approccio
“alla giornata” non può portare a
nulla di buono e di diverso rispetto a quanto realizzato fin’ora. Bisognerebbe
riaffermare la cultura telocratica su quella tecnocratica o peggio ancora su
quella burocratica, dove il telos sia
uno sviluppo imprenditoriale basato sull’impulso positivo anche del digitale.
Un’agenda che porti in ogni azienda la cultura digitale, faccia capire che la
delocalizzazione dei punti vendita è possibile grazie all’e-commerce, che la
diffusione e l’apertura dei dati possa essere leva competitiva per le imprese,
che stimoli la diffusione della banda larga per il pieno accesso alla rete con
le connesse opportunità. Una agenda che sia linfa vitale per la creazione di smart city a vantaggio di tutti e non
solo dei produttori di tecnologie spesso, ma non sempre utili.
Per realizzare tutto questo è possibile tracciare
una road map, che vede imprese,
Camere di commercio, Pubbliche Amministrazioni e centri di ricerca fare ognuna
la propria parte per la concreta e fattiva realizzazione.
Nello specifico le imprese dovrebbero:
1. accelerare il ricambio
generazionale assumendo nativi digitali e le loro competenze naturali, destinando
il personale più esperto al tutoraggio della nuova forza lavoro;
2. adottare soluzioni
digitali per la gestione dei processi aziendali, dai più semplici (protocollo,
posta elettronica certificata, firma digitale) alla fatturazione elettronica e
all’Enterprise Resource Planning per la gestione dell’impresa;
3. adottare cicli di
formazione volti all’innovazione con una cadenza minima annuale;
4. accettare il rischio di
investire nel digitale.
Le Camere di commercio dovrebbero:
1. stimolare nuove imprese
proponendo opportunità ai giovani, ma non solo, di aprire startup per mettere
in pratica le proprie idee, i prodotti locali, le proprie esperienze creative,
sfruttando le potenzialità offerte dall’ecommerce;
2. accompagnare le piccole e
medie imprese nei processi di delocalizzazione delle vendite mediante le
piattaforme di ebusiness;
3. promuovere la cultura
digitale delle micro e piccole imprese;
4. aprire e rendere fruibili
i propri dati sia socio-economici, sia del registro imprese (peraltro già di
fatto open);
5. promuovere l’incontro tra
la domanda e l’offerta di innovazione sul territorio, al fine di evitare la “fuga di cervelli creativi”.
I Comuni e le altre istituzioni a carattere locale
dovrebbero:
1.
garantire la piena funzionalità degli sportelli unici per
le attività produttive;
2.
automatizzare i servizi transattivi (ad esempio la
concessione di licenze), spersonalizzando ed efficientando il rapporto con le
imprese;
3.
creare infrastrutture per la mobilità e la banda larga,
mediante coworking con privati e altre pubbliche amministrazioni e offrire una
piena disponibilità di connessione alla rete grazie al wifi, creando spazi
pubblici attrezzati (piazze, giardini pubblici, fermate di autobus o
metropolitane, ecc.);
4.
realizzare nei punti strategici delle città dei chioschi
digitali al pieno servizio della cittadinanza e dei turisti;
5.
predisporre piani regolatori ascoltando e condividendo le
esigenze delle imprese e delle organizzazioni no profit, oltre alle altre
pubbliche amministrazioni.
Le Università e i centri di ricerca dovrebbero:
1. Accentuare le relazioni
con le imprese e creare programmi efficaci di gestione tra domanda e offerta
lavorativa.
Tutti, dico tutti, dovrebbero accettare di fare un
passo indietro perdendo un po' di autonomia, per farne due avanti attraverso la
condivisione dei programmi e degli obiettivi e individuando le responsabilità,
le priorità, i tempi e i costi. Il tutto attraverso un Patto di Condivisione
pubblico, trasparente con il quale rispondere ai cittadini tutti. Questa la
tabella di marcia che gli attori della città dovrebbero rispettare per il
raggiungimento di quella ottimistica visione data dalla ragione, ma come
dovrebbe “rispondere” la città a
queste politiche? Come si può realizzare una trasformazione positiva in spazi
urbani abili e soprattutto sensibili?
Diventando consapevoli tutti – incominciando dalla classe dirigente -
che una foresta urbana non è perfettibile, ma migliorabile, non con manuali e
vademecum
omnicomprensivi, ma con una “cassetta degli attrezzi” che consenta di governare
al meglio i processi della programmazione, realizzazione e gestione delle
politiche e degli interventi. Un approccio innovativo che abbia almeno nella
identità del futuro, sistematicità, sostenibilità e sperimentazione alcuni dei
punti di riferimento di base .