giovedì 17 settembre 2015

ORGANIZZIAMOCI MEGLIO PER INNOVARE



E’ indispensabile un approccio sistemico per organizzare il lavoro specie nelle organizzazioni di servizi, sia pubbliche sia private e soprattutto nell’amministrazione pubblica. Ma la cosa non sempre e ancora non dovunque avviene. La rete di relazioni tra i soggetti (settoriali-disciplinari o territoriali o funzionali che sia) deve tendere a costituire un sistema che si adatti alle circostanze – e direi anche ai caratteri dei soggetti – sempre con l’obiettivo di definire prima e realizzare poi un intervento in forma unica. Un sistema caratterizzato, dunque, da “scambiatori” con ruoli e funzioni specialistici, consci delle funzioni e delle responsabilità degli altri “scambiatori”, consapevoli della valenza e della responsabilità della propria funzione, ma solo e unicamente in quanto funzione di volta in volta interrelata con una o più delle altre funzioni attraverso la rete del sistema stesso. A questo proposito è utile richiamare l’intervento di Alberto De Toni in riferimento alla complessità del management. In particolare, mettendo a confronto i modelli manageriali classico e complesso (in figura), De Toni sottolinea:
Il modello classico prevede che l’organizzazione sia semplice, in un ambiente stabile e in un futuro prevedibile sulla base di proiezioni di serie storiche. Il successo si ottiene in queste condizioni tramite equilibrio e stabilità. Il modello complesso si basa invece sull’idea che l’organizzazione sia un sistema complesso adattivo, in un ambiente turbolento e in un futuro prevedibile solo in parte grazie allo studio dei megatrend. In questa situazione il successo deriva dal non-equilibrio e dal cambiamento, come la sopravvivenza nei sistemi complessi adattivi.(.........) In una prospettiva di autorganizzazione, i singoli elementi contribuiscono all’assorbimento della complessità tramite un processo bottom-up. Le singole persone, con i loro vari ruoli, acquistano sempre più importanza e spesso dimostrano di avere la capacità di una maggiore comprensione della variabilità esterna [...]. Il cambiamento di paradigma organizzativo da una mente a molte menti procede verso una comprensione sempre maggiore della complessità.-(2010, p. 81)



Modello manageriale classico e complesso a confronto Fonte: De Toni (2010, p. 82)

È evidente come il modello classico in realtà non sia sbagliato e comunque si adatti perfettamente a organizzazioni – o a suborganizzazioni – che gestiscono attività stabili, semplici e che non necessitano di cambiamenti repentini: penso al servizio di sorveglianza di un edificio o al servizio fornito dall’autista di una società di trasporti pubblici su gomma. La realtà è che il modello tradizionale è insufficiente, come sostiene Savage (2009, p. 247): «Quando il futuro è come il passato ha senso organizzare attraverso la routine. Ma quando sfere rotonde, inaspettate armonie e caleidoscopici cambiamenti tecnologici sono all’ordine del giorno, è necessario attuare una strategia per la complessità e la varietà»
La tendenza verso l’autorganizzazione, dunque, diventa sempre più forte anche per le organizzazioni che si occupano in particolar modo dello sviluppo sociale e economico. Un’autorganizzazione in cui l’aspetto fondamentale è la capacità di responsabilizzarsi nel proprio ruolo e di collaborare con i ruoli altrui: ciò che conta è non solo e non tanto il tipo di organizzazione (ministero, impresa, ecc.) e le modalità di funzionamento, ma “chi risponde a chi”.
Non si tratta di lasciare libertà assoluta, ma di favorire un contesto in cui possa nascere l’auto-organizzazione: «L’auto-organizzazione non significa team autogestiti, o empowerment, o organizzazione piatta. Non è un laissez-faire management. Significa impegnarsi nel guidare l’evoluzione dei comportamenti e delle interazioni invece che specificare comportamenti effettivi in anticipo» (Olson, Eoyang, 2001, p. 161).
Il modo pratico perché gli elementi del sistema impresa cooperino e competano è favorirne la partecipazione
In questo contesto è utile, se non indispensabile, ripensare i modelli di governance che attualmente gestiscono i processi di ideazione e attuazione degli interventi per lo sviluppo, adattandoli adeguatamente e specificamente alla realtà circostante. Stan Davis e Christopher Meyer (1999, p. 105), rispettivamente direttore e ricercatore del Center for Businness Innovation della Ernst & Young, ricordano a tale proposito come un’«organizzazione adattiva»
significa che la ragnatela organizzativa deve funzionare come una ragnatela economica. L’attività economica obbedisce sempre alle stesse regole, sia che si tratti di un sistema economico, di un’azienda, di un singolo individuo. Blur è segmentabile. In secondo luogo, le conoscenze sui sistemi adattivi possono essere applicate anche alle organizzazioni. Prendete per esempio il concetto di varietà: vale la pena rinunciare in una certa misura all’efficienza per garantire quella diversità di pensiero che alimenta l’innovazione. Anche la permeabilizzazione dei confini favorisce il fiorire di nuove idee e un’organizzazione paradossalmente è più robusta se è instabile, al “limite del caos”. In terzo luogo, due strategie per creare adattività sono le seguenti: essere al tempo stesso “piccoli” e “grandi” e creare un benefico rimescolamento all’interno dell’organizzazione.
In questo scenario specie la Pubblica Ammnistrazione deve incrementare notevolmente i propri livelli di responsabilizzazione delle persone coinvolte, così come la loro collaborazione interfunzionale; gli interventi e le azioni definite devono accentuare l’interdisciplinarietà su livelli orizzontali.
Molte saranno le resistenze, e probabilmente non tutte le organizzazioni saranno auto-organizzazioni. Quello che ci sentiamo di affermare è che tutte vivranno la necessità di un’apertura ai contributi bottom-up. È necessario perché là fuori c’è una rete che corre a una velocità mai vista prima. Oggi in un mercato frenetico e a tecnologia sempre più avanzata, l’immaginazione è il valore aggiunto delle organizzazioni di successo. È necessario dare spazio a quanti liberano fantasia e creatività per immaginare e costruire un domani non prevedibile. Per gli uomini e per le organizzazioni il futuro appartiene a chi sa immaginarlo” (De Toni, 2010, p. 95).

Rif. Bibliografici
Cipollini C. (2011), La mano complessa. Condivisione e collaborazione per la gestione dello sviluppo dei territori, ETS Edizioni, Pisa
DAVIS S., MEYER C. (1999), Blur. Le zone indistinte dell’economia interconnessa, Olivares, Milano. 

DE TONI A.F. (2010), Teoria della complessità e implicazioni manageriali. Verso l’autorganizzazione, in “Sinergie”, 81, gennaio-aprile.

OLSON E.E., EOYANG G.H. (2001), Facilitating organization change. Lessons from
complexity science, Jossey Bass-Pfeiffer, San Francisco.

SAVAGE C.M. (2009), 5th generation management. Co-creating through virtual enterprising, dynamic teaming, and knowledge networking, Butterworth-Heinemann, Boston (rev. ed.). 

lunedì 14 settembre 2015

LA COMPLESSITA' NELLO SVILUPPO LOCALE

Ancora una volta occorre notare come qualunque progetto di sviluppo di locale non possa basarsi su una sommatoria di elementi tra loro separati o – ancor peggio – su un progetto tecnico che da solo dovrebbe giustificarne la necessità, o su un’analisi costi e benefici, la cui redditività determini automaticamente la decisione (nel presupposto, scientificamente poco attendibile, che tutto sia quantificabile) o, infine, soltanto su una valutazione di sostenibilità ambientale. Al contrario, una procedura corretta ed efficace dovrebbe riassumere e sintetizzare, sotto l’aspetto tecnico e amministrativo, le varie tematiche, e costituire il frutto di un complesso sistema di interrelazioni tecnico-scientifiche e temporali che definiscano – mediante indicatori di carattere tecnico, economico, sociale e ambientale (e anche istituzionale come afferma Gaetano Esposito), e non solo – le caratteristiche del progetto da realizzare, adottando di volta in volta le metodologie più adatte al caso specifico, con un approccio “postmoderno”, flessibile e adattivo. Lo afferma chiaramente Edgar Morin il “sociologo della complessità”, quando definisce il principio della semplificazione e il principio della complessità:
Direi che il principio della semplificazione si fonda sulla separazione dei diversi domini della conoscenza; in questo caso, gli oggetti della conoscenza sono separati dal loro contesto. Si crede perciò di “conoscere” separando l’oggetto. Il primo aspetto della semplificazione è la separazione, il secondo è la riduzione: la conoscenza di un insieme di elementi viene ridotta alla conoscenza delle singole parti. Al contrario, il principio di complessità consiste nel mantenere intatto l’intreccio degli oggetti: distinguendoli, ma tenendoli insieme. Di conseguenza, ho cercato di sviluppare tutti gli strumenti necessari per tenere insieme gli oggetti della conoscenza come l’anello retroattivo, l’anello ricorsivo, la dialogica e così via.”
(intervista in Benkirane, La teoria della complessità, Bollati Boringhieri, Torino.

2007, pp. 23-4),