sabato 11 febbraio 2012

Riccardo Venturini e "La mano complessa"


Con un titolo che risulta subito accattivante grazie alla metafora che impiega, La mano complessa (Pisa, Edizioni ETS, 2011), Claudio Cipollini (tra i maggiori esperti di sviluppo integrato e direttore generale di Retecamere) pubblica un denso volume su condivisione e collaborazione per la gestione dello sviluppo dei territori.
Punto di partenza di questo studio è la consapevolezza che ci troviamo in un periodo di cambiamenti così profondi, radicali, accelerati, nel quale tutti i riferimenti, paradigmi e valori mutano e rendono conoscenze e interventi problematici e incerti. Non ho difficoltà a riconoscere nel nostro tempo uno di quei periodi che K. Jaspers, nella sua filosofia della storia, definiva “periodi assiali”, di grande rivolgimento, per cui non si può non vedere con interesse uno studio che concretizzi, per un settore almeno del nostro tempo, quella intuizione.  
Non conosciamo il presente (conoscere l’oggi è privilegio dei posteri) né il futuro (andiamo, ma la meta non è determinata e si viene definendo col nostro procedere): tuttavia, sulla base di alcuni dati e incontrovertibili constatazioni, Cipollini cerca di individuare un approccio, delineare un itinerario, proporre un metodo, per affrontare lo sviluppo dei territori, ma anche molto di più, ponendo al centro dell’analisi il soggetto in rete, come la formazione più specifica e pregnante del tempo.
Forse si potrebbe differenziare il soggetto-rete dal soggetto in rete o dal soggetto nella rete, ma non è questo il punto. Quello che, a un non addetto a questi lavori pare evidente è che, per quanto sofisticato sia l’approccio proposto, esso appare, comunque, un approccio “tecnico”, il che riapre la domanda sulla natura e sull’essenza della tecnica. «Poiché l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvenga in un ambito che da un lato è affine all’essenza della tecnica e, dall’altro ne è tuttavia fondamentalmente distinto» (Heidegger). Cercando di collocandomi in uno di questi possibili ambiti, di fronte a questa pro-vocazione (chi chiama e cosa può pro-durre?) non rimuovo l’interrogativo su quale ethos possa sostenere questo progetto, se quest’ethos possa essere, per così dire, messo tra parentesi o non debba, viceversa, essere posto sul proscenio, interrogandosi non solo sul come fare, ma anche sul perché e cosa fare.
Esemplifico: pur consapevole della originalità dell’attuale individuo-rete, mi vengono alla memoria ricordi di mie esperienze giapponesi in cui mi si parlava di “circoli di qualità”, aperti alla creatività dei lavoratori di un reparto, attraverso i quali, contemporaneamente, si producevano identificazione autorealizzativa, comunicazione, integrazione; oppure dell’attitudine di una impresa nei confronti delle altre, con la finalità non di “distruggere la concorrenza”, come spesso sentiamo dire dalle nostre parti, ma di utilizzarla e aiutarla per fare sistema. Orbene, tutto questo era evidente che fosse reso possibile per il suo riposare su una realtà psicosociale e storico-culturale che non ha conosciuto il cristianesimo, il cogito e il romanticismo, e aveva ben radicato il sentimento dell’unità del un popolo, cementata dal “sistema imperiale”.
Domandiamoci allora cosa potrebbe sostenere, nella nostra incerta realtà sociale, la formazione “soggetto-rete”? Il progetto dovrà necessariamente fare i conti con esempi di “reti” perverse, presenti alla nostra esperienza (da quelli dei totalitarismi del secolo scorso al nostrano “familismo amorale”, a certi sistemi di oggi: pensiamo a quanto ci mostra l’attualità della rete o sistema dei trasporti, dalle navi ai taxi!) per cercare di fugare i brividi che avvertiamo ricordando ciò che Michelstaedter chiamava koinonìa kakòn, le consorterie e le combriccole dei malvagi, quelle da cui l’individuo sente di doversi difendere: in altre parole, la rete sarà al servizio dello sviluppo e dei diritti delle persone? E se riguarderà tutti in che modo riguarderà ciascuno?
Altro interrogativo che riguarda ancora l’ethos del progetto è quello del prezzo che si è chiamati a pagare per il rispetto e la comunicazione (a chi?) della verità (quale?), perché esso non cada nell’errore della autosufficienza totalizzante, ma sia attento a fare i conti con quello che c’è al di fuori della sua cornice, vigile sui possibili confronti, interferenze, integrazioni e collisioni eventuali. Individuate, infatti, alcune delle linee di forza lungo le quali il movimento (autopoietico), senza meta, si viene svolgendo, domandiamoci: l’approccio — una delle forme della modernità — che rapporto potrà avere con quella componente essenziale dell’attuale post- o postpost-modernità che è rappresentata dall’antimodernità? E come si relazionerà con le forme di spiritualità tradizionali (aperte, tuttavia, a una nuova sperata spiritualità del finito) e, in quanto approccio “tecnico”, come si relazionerà con quella culture savante che, in un periodo assiale, sembra da un lato riproporre la figura (antimoderna) dei “compilatori” bizantini, ma dall’altro rimane pur sempre la più valida difesa contro la barbarie? Si potrà andare a una ridefinizione del concetto e della pratica di nuove aristocrazie (nei e coi nuovi media, nei e coi nuovi contesti), superando i pudori del politicamente corretto che rendono impronunciabile questo termine?
Questa proposta mettendo in moto tanti interrogativi dimostra, a un tempo, molta vitalità: aspettiamo con interesse verifiche e risposte che verranno col procedere e, perché no, col cooperare.
Riccardo Venturini

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