martedì 13 ottobre 2015

INNOVARE E' PROGRESSO (*)




Il mondo si sta muovendo con sempre maggiore dinamismo. Le recenti crisi economiche, ecologiche e sociali ci spingono a cercare nuovi modi di pensare e agire. Creatività e innovazione possono spingere la società verso la prosperità, ma è necessario farne un uso responsabile. Per rimanere in prima linea, l’Italia ha bisogno di essere più creativa e innovativa. Essere creativi vuol dire saper immaginare qualcosa che non esiste, cercare nuove soluzioni e nuove forme, disegnando attività, prodotti e servizi. La creatività è una dimensione fondamentale dell’attività umana. La creatività costituisce il cuore della cultura e dell’innovazione, ma deve essere garantito a tutti di coltivare il proprio talento creativo (e di tutelarlo legalmente). Come dimostra la storia industriale del nostro Paese, ora più che mai il futuro dell’Italia dipende dalla creatività e dall’immaginazione delle persone che sanno disegnare nuovi percorsi per il futuro.
La parola “innovazione” è principalmente legata al cambiamento attraverso la creatività. Nella maggior parte dei casi questo legame assume accezioni positive; nell’immaginario collettivo l’innovazione è qualcosa che può migliorare la vita nel futuro, e si correla a concetti come scienza, conoscenza e sapere creando rottura con il presente e il passato, “mitigando” – fosse solo sotto il profilo meramente psicologico – le paure che caratterizzano la vita moderna. Questo processo sociologico rende l’innovazione intrinsecamente e intimamente legata al cambio di paradigma del progresso umano, quasi diventandone il catalizzatore.
Il quadro della tecnica e della progettualità disegnato nei capitoli precedenti ipotizza scenari concreti per variare il come e dove l’essere cittadino o impresa impegna (spreca) il proprio tempo di vita. Maggiore crescita potrebbe oggi essere meglio intesa come maggiore competizione sinergica che non maggiore competizione antagonista (tra imprese e cittadini, tra imprese e imprese, tra cittadini e imprese, nel promuovere e nell’ottenere il rispetto dei propri diritti).
Da molti anni, in Italia, si parla di educazione dei giovani all’innovazione, in linea con le politiche adottate dagli altri paesi, come Svezia, Singapore, Stati Uniti, Finlandia, Svizzera, Corea del Sud, Islanda. Nella propensione all’innovazione, infatti, si rilevano differenze geografiche e territoriali: in alcuni paesi o aree urbane si cerca di orientare gli individui verso comportamenti favorevoli alla creazione di attività di innovazione, in altri molto meno. In alcune aree del mondo, anche dove l’ecosistema statale è poco propenso all’innovazione, esistono radici culturali popolari di fortissimo orientamento alla creatività e all’innovazione stessa. Spesso, queste aree sono ad altissima contaminazione e fertilizzazione crossculturale (molti immigrati che portano le loro culture e generano nuovi business, nuovi prodotti, nuovi servizi) (Florida, 2003).
Di qui la necessità, individuata da alcuni studiosi e policy maker, di indirizzare gli strumenti educativi verso la promozione dell’innovazione e della creatività proprio nei contesti meno propensi al cambiamento e in aree apparentemente “povere” per la forte presenza di immigrazione.
Le modalità per educare all’innovazione sono diverse; la tendenza generale è di intervenire nei programmi scolastici e universitari, promuovendo cultura scientifica, tecnologica e di business. Tale tendenza, però, tralascia di considerare le caratteristiche delle diverse fasi cognitive degli individui: è nell’età infantile, infatti, che si è più propensi all’innovazione e alla creatività, e quindi sarebbe opportuno intervenire con programmi ad hoc fin dall’infanzia. Proprio in questo campo si comincia a scorgere qualche spiraglio di sperimentazione sin dalle scuole materne e primarie di percorsi di stimolo alla creatività e all’innovazione, di nuove metodologie, di nuovi strumenti educativi come tablet pc, di attrezzatura scientifica e di metodologie ad alto tasso di creatività e sensibilità al mondo reale. Purtroppo il sistema educativo pubblico, dopo gli anni recenti di riforme al ribasso, è lontano anni luce da questo approccio.
Inoltre, non sempre è vantaggioso promuovere esclusivamente programmi riguardanti la conoscenza tecnico-scientifica ed economico-gestionale; sarebbe invece auspicabile intervenire sull’alfabetizzazione tecnologica e strumentale in termini non solo di utilizzo, ma anche di reali vantaggi e benefici nei vari campi di applicazione e soprattutto nel tessuto imprenditoriale. In altre parole, banalizzando il concetto, cittadini e imprese “meritano” che uno Stato insegni loro sia a usare uno stetoscopio sia a costruirne uno e a venderlo, ancor meglio a crearne una variante che sia un nuovo prodotto che fornisce migliori risultati e apre un nuovo mercato.
Una proposta educativa che rilanci la capacità di innovare in questo Paese, dunque, dovrebbe comprendere non solo gli aspetti contenutistici, ma anche e soprattutto modelli innovativi, sviluppando anche fattori emozionali e valoriali dell’innovazione stessa, spaziando dalla scienza alla cultura altrui. L’impresa imparerà a capitalizzare su conoscenze acquisite da scienza e cultura, con le quali avrà costruito un rapporto costante e diretto attraverso le proprie risorse umane educate con i nuovi modelli “aperti” e grazie a un rapporto di trasferimento diretto da e verso scienza e cultura.
Questo metodo che parte dall’educazione aiuta a bypassare un elemento frenante sino a oggi. Il sistema economico-finanziario ha una scarsa propensione al cambiamento. Ciò è vero a livello mondiale – fatta eccezione per qualche “avventurosa” nazione come l’Islanda in cui il popolo si è preso la responsabilità di decidere su questo argomento – visto che nonostante crisi perduranti si persevera nei vizi della finanza invece di cambiare i suoi paradigmi.
Lo spirito imprenditoriale, per sua natura intrinseca, deve creare il “nuovo”, l’attitudine all’innovazione non è adeguatamente coltivata e non è riconosciuta come valore poiché i piccoli imprenditori hanno difficoltà e resistenze “culturali” ad affrontare le nuove sfide dei mercati e non riescono ad andare oltre le loro visioni tradizionali in termini di business e di prodotto. La realtà italiana soffre ancor più di questo fattore laddove la politica ha falsato lo sviluppo d’impresa attraverso clientelismi e favoritismi che hanno spento la capacità di competere delle PMI. Voler avere vita facile in un ambiente competitivo è azione suicida, lo dicono le leggi fondamentali dell’evoluzione naturale.
Alcune PMI italiane non sembrano possedere strategie definite per l’innovazione perché mancano di una tradizione e di una cultura volte all’innovazione. Una piccola impresa nata per fare body rental di personale paramedico per una struttura ospedaliera pubblica che segue gli input del politico di turno che promette di far fare outsourcing ha ovviamente poco interesse e poca voglia di innovare, competere, crescere in maniera sana e sostenibile. Fortunatamente, invece, molte aziende nascono e crescono con un imprinting esclusivamente innovatore. Ci appare quindi sintomatica la visione a breve termine propria delle PMI, per cui si rincorre il miraggio delle opportunità a breve termine, perdendo di vista gli effetti negativi sul lungo e medio periodo. La stessa percezione e accezione dell’innovazione nelle PMI è alquanto variegata. Dall’innovazione come driver di tutta l’attività d’impresa alla mera informatizzazione, come rivelano studi e analisi sul tasso d’innovazione delle PMI rispetto alla diffusione al loro interno delle TIC.

(*) Estratto da L'INNOVAZIONE INTEGRATA di C. Cipollini e N.C. Rinaldi. Ed. Maggioli - Rimini -2012

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